Misure urgenti per garantire la continuità aziendale post virus. Che confusione!
di Avv. Wolfango M. Ruosi
Studio WMR
Quando leggi un provvedimento legislativo e ti sembra semplice, non sai cosa aspettarti.
In tempo di Covid il Legislatore, o pseudo tale, è solertemente prolifico. Anche in tema di gestione e risoluzione delle crisi aziendali non ha fatto eccezione. Sicuramente l’intento era buono, il risultato lo lasciamo ai posteri. A noi il compito di riordinare le idee.
La Legge Fallimentare è stata soppiantata dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. Numerose sono le novità che abbiamo esaminato nelle precedenti newsletter e che non posiamo qui riprendere per ragioni di spazio, a favore dell’attualità.
Per l’avvio delle nuove procedure erano già state previste date differenti, scaglionate nel tempo. Il Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in pari data, già in vigore, aveva introdotto alcune misure di sostegno alle imprese e nell’art. 11 aveva prorogato i termini degli obblighi di segnalazione (le c.d. procedure di allerta) al 15 febbraio 2021, posticipandoli di sei mesi. Il recente D. L. 8 aprile 2020, n. 23, ironicamente chiamato Decreto Liquidità, pubblicato in Gazzetta in pari data e immediatamente in vigore, ha disposto ulteriori rinvii, precedendo il preannunciato decreto correttivo al Codice della Crisi, quindi, è stato posticipato ciò che sarà “corretto”. In sintesi: un gran pasticcio.
L’art. 5 del Decreto Liquidità
modifica i termini contenuti nell’art. 389 del Codice della Crisi, nel seguente modo: “1. Il presente decreto entra in vigore il 1 settembre 2021, salvo quanto previsto al comma 2”.
Praticamente, è stata differita l’applicazione di quasi tutta la nuova disciplina in materia concorsuale, salvo alcune eccezioni, che seguono la tempistica iniziale, contenute nel comma secondo: le regole di carattere organizzativo; la responsabilità degli amministratori; l’assunzione degli assetti organizzativi dell’impresa; la nomina degli organi di controllo; le garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire.
E’ evidente che l’intento del Legislatore della riforma della Legge Fallimentare, ovverosia di salvare il maggior numero di imprese, consentendo la continuità aziendale, con l’introduzione delle temute procedure di allerta (già differite sino al 15 febbraio 2021), mal si concilia con il periodo di crisi diffusa, grave, persistente e involontaria, che le imprese stanno attraversando. Quindi … si rimane con la vecchia Legge Fallimentare sino al 1° settembre 2021. Abbiamo più di un anno di tempo per rimettere in assetto stabile le nostre imprese ed affrontare le rilevanti novità introdotte dal Codice della Crisi.
Il rischio, a causa della situazione pandemica, è che i fallimenti dilaghino a dismisura. Ed ecco che nel Decreto Liquidità si coglie una luce di in-consapevole realismo: la liquidità promessa non potrà scongiurare tale rischio. Se il problema non puoi risolverlo, lo elimini alla radice, così sembrerebbe aver pensato il Governo. Sino al 30 giugno del 2020 il fallimento è stato di fatto temporaneamente “abrogato” e nessuno potrà fallire, non perché non ci saranno i presupposti, ma perché è stato impedito, con sollievo anche dei Tribunali. In che modo?
L’art. 10 del Decreto Liquidità
introduce l’improcedibilità delle istanze di fallimento, anche per quelli autodichiarati e per le liquidazioni coatte amministrative, che hanno come presupposto la dichiarazione di insolvenza. Ciò vale per tutti i ricorsi depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020. Scaduto il termine finale, le istanze di fallimento potranno essere depositate secondo la vecchia procedura. L’unica eccezione riguarda le istanze presentate dal Pubblico Ministero, se necessitano di provvedimenti cautelari e conservativi, per evitare condotte dissipative, sempre possibili.
Discorso diverso è per i concordati preventivi e per gli accordi di ristrutturazione.
L’art. 9 del Decreto Liquidità
allunga i termini per i concordati preventivi e per gli accordi già omologati, con scadenza di esecuzione tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021, di sei mesi. Per quelli non omologati, si può chiedere un nuovo termine per elaborare una nuova proposta, ma che non sia superiore a novanta giorni.
Per entrambi i procedimenti, che siano pendenti al 23 febbraio 2020, purché prima dell’udienza per l’omologa, si può chiedere la fissazione di nuovi termini di adempimento, comprovando la necessità.
Nel caso in cui sia stato presentato ricorso per il concordato preventivo, con riserva di deposito successivo della proposta, del piano e della documentazione, avendo già beneficiato di una prima proroga, si può richiedere una seconda proroga non superiore a novanta giorni (anche se è pendente istanza di fallimento), purché si dia prova dell’esistenza di fondatie giustificati motivi, collegati all’emergenza epidemiologica. Lo stesso vale anche per gli accordi di ristrutturazione, ma in tal caso, si deve dimostrare la sussistenza dei presupposti maggioritari.
Con tali interventi, si è voluto evitare che l’inadempimento agli impegni assunti in entrambe le procedure sia causa di risoluzione. Tale “tutela” dei debitori va ad integrare la tutela indiretta derivante dalla sospensione dei termini processuali, da ultimo fissata, sino all’11 maggio 2020, che blocca le iniziative tese alle impugnazioni.
Vi sono altri due articoli del Decreto, che considerano realistica la carenza di liquidità a cui andranno in contro le imprese, non ostante l’intervento economico promesso.
L’art. 6 del Decreto Liquidità
sospende le norme in materia di riduzione del capitale sociale sino al 31 dicembre 2020, per gli esercizi chiusi entro tale data, sia per le società per azioni, sia per le società a responsabilità limitata. Quindi, non vi sarà la necessità di convocare senza indugio l’assemblea e dare avvio alla procedura che ne consegue, sollevando da tale onere gli amministratori, collegio sindacale, ecc.. Coerentemente e per lo stesso periodo, la perdita del capitale sociale, che pure potrebbe verificarsi, indipendentemente dall’accertamento endosocietario, non costituisce temporaneamente causa di scioglimento della società, non solo per s.p.a. e s.r.l., ma anche per le cooperative. Ciò pone al riparo gli amministratori dalle responsabilità derivanti dall’art. 2486 cod. civ., successive al verificarsi della causa discioglimento (limitatamente alla perdita del capitale sociale) per non aver conservato l’integrità e il valore del patrimonio sociale. Questa “esimente”, sia pur temporanea, non è di poco conto, poiché evita agli amministratori di incorrere nella responsabilità personale e solidale per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi.
Gli strumenti posti a tutela delle imprese dal Decreto, mirano a garantire la continuità aziendale e permettere loro di attraversare il guado dell’emergenza e ripartire. Ciò può essere salutato positivamente. Ma si intravvede il rischio che di questo “ombrello protettivo” possano usufruirne anche quelle imprese, che si trovano in stato di perdita di continuità per altre cause, non rinvenibili nella situazione emergenziale. In tal caso, verrebbe meno la tutela per il mercato, per i creditori e per gli stakeholders di potersi avvedere della reale situazione di quelle imprese comunque decotte e prive di serie prospettive di recupero, che potrebbero così beneficiare di una immeritata fiducia. Se l’obiettivo del Legislatore è quello di azzerare le dichiarazioni di insolvenza e i fallimenti da Covid, possiamo considerarlo raggiunto; con maglie larghe, ma comunque raggiunto.
Il problema che residua, a mio avviso, è che cosa succederà agli amministratori che avranno usufruito dei finanziamenti dello Stato, nel caso in cui l’insolvenza prodottasi ora, ma non manifestatasi per la tutela ad “ombrello”, emerga negli anni successivi, durante i quali i finanziamenti dovranno essere rimborsati. In caso di fallimento, sarà difficile non incorrere nella responsabilità da prosecuzione dell’attività in situazione di insolvenza, se l’attività è stata proseguita grazie ai finanziamenti da Covid, nella consapevolezza di non poter far fronte alla restituzione del capitale finanziato e dei pagamenti correnti. La responsabilità oggi “sospesa” per decreto, potrebbe riemergere poi (quando si potrà fallire), ma questo è problema che richiede ben altra e dedicata disamina.
Ciò che non si comprende, è l’impedimento a fallire in proprio anche per gli imprenditori già insolventi e consapevoli di non poter riprendere, trovandosi così costretti a proseguire forzatamente sino al 30 giugno, senza neppure poter riaprire l’attività, anche quando sarà concesso. Si può solo dedurre, che il Governo non gradisce che la “macchia” del fallimento manifesti i propri effetti nel periodo emergenziale, tanto da doverne contenere il numero, sino ad azzerarlo per legge.
A prescindere dai risvolti pratici, che il complesso normativo introdotto dal Decreto potrà avere in futuro, il rinvio dell’introduzione del Codice della Crisi, nei suoi aspetti più innovativi, risulta opportuno, poiché in una situazione dove l’insolvenza appare come diffusa e prevedibile, attesa la possibile crisi degli investimenti e, in genere, delle risorse necessarie per procedere a ristrutturazioni delle imprese, la necessità di affrontare categorie del tutto inedite ed esposte a dubbi interpretativi e procedurali rappresenta un rischio foriero di ulteriori danni, che la ragione consiglia di evitare. Meglio continuare ad affidarsi ad istituti conosciuti di cui alla “vecchia” Legge Fallimentare, corroborati da una consolidata giurisprudenza, che sedimentata negli anni, ha contribuito a dare una necessaria stabilità interpretativa, che, lei sola, può assolvere alla primaria finalità della certezza del diritto.
Soltanto a superamento del picco della crisi economica, si potrà avere un contesto economico fisiologico in grado di affrontare le novità introdotte dalla riforma, consentendo agli operatori di operare con maggior stabilità e al nuovo Codice della Crisi di operare con concrete possibilità di successo.